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Cinema - Intervista ad Antonio Libutti -documentario "Con gli occhi al muro". Ricognizione


Con gli occhi al muro è un documentario che pone una lente di ingrandimento sulla fitta rete della street art in Italia, un intento non semplice data la vastità degli artisti sulla scena. Cosa vi ha spinto ad elaborare questo progetto? Non c’è stata una vera e propria “causa scatenante”, più che altro si è trattato di una chiara intuizione. Ho prodotto assieme a Giorgio Muscetta, fotografo e mio collaboratore storico, il primo documentario (“I bambini di Gagliano”, sul periodo di confino di Carlo Levi in Basilicata) nel 2012. Il 2013 è iniziato con la voglia di giocarmela nell’attualità artistica italiana, il mondo della street art è molto vasto e vario, forse era arrivato il momento di indagarne più da vicino gli aspetti. Verso la fine di quello stesso anno ho capito che, le cose in Italia stavano cambiando, stava mutando l’approccio, sia da parte degli artisti che dei fruitori. Oggi, a quattro anni di distanza, questo cambiamento è sotto gli occhi di tutti; i quartieri che ospitano murales sono in costante aumento e sono diventati meta di pellegrinaggio turistico. Anche l’abitante è diventato “culturale”. A Roma recentemente, in zona Pigneto, un’anziana signora ha preso ad illustrarmi le operazioni di realizzazione di varie pitture presenti nel quartiere. Insomma ho cominciato a proporre il progetto, ad esempio agli amici di Funk Rimini che hanno curato gran parte della colonna sonora. Nel 2016, dopo due anni di lavorazione serrata abbiamo creato un documentario poco incline alle definizioni e più attento ai fatti artistici, ai fenomeni legati a ciò che comunemente si definisce “street art” e per fenomeni non devono intendersi tanto gli atti pittorici in sé quanto piuttosto tutte le fasi dell’operazione artistica, dall’ideazione alla realizzazione su parete fino al coinvolgimento della comunità.


In un’intervista, un artista sostiene che l’arte istituzionalizzata ha un pubblico molto vasto, mentre la street art è “ghettizzata” anche se si trova in strada, quindi alla portata di tutti. Sei d’accordo con questa affermazione?

Il passaggio di cui parli è di Sklero, appartenente alla TDK, crew storica di Milano. Si riferiva al writing che è espressione nata nei ghetti americani. Nei primi Settanta in Italia – diversamente che in USA – la parola “graffito” veniva utilizzata per definire le scritte politiche sui muri. Sklero dice che i graffiti sono una disciplina per addetti ai lavori e su ciò sono d’accordo in parte poiché credo che il lettering si collochi alla confluenza tra segno iconico (che è infinito quanto il repertorio di esseri e oggetti presenti nell’Universo) e segno alfabetico/verbale. Noi siamo abituati ormai a vedere tag, flop e intere murate di graffiti un po’ dappertutto, insomma è stata acquisita l’espressione, cioè: i graffiti esistono. Non possediamo ancora completamente il codice di decifrazione (come cantava Kaos One in un suo famoso pezzo). Discorso diverso deve essere fatto per i murales che nascono per essere allegorici e meno ermetici possibile, si pensi a tutta la tradizione messicana e ai lavori di Rivera nella Secretaría de Educacion Publica a Città del Messico, pitture istituzionalmente commissionate quindi.


È stato difficile rintracciare gli artisti che avete intervistato? Qual è stata la risposta al vostro progetto?

Gli artisti e i curatori sono stati tutti molto disponibili, un documentario così organico che riguardasse l’intera galassia della street/urban art italiana in un momento preciso, non era mai stato fatto. On line esistevano per lo più film cult come “Wild Style” o “Nero Inferno”, video riferibili al writing o contributi audiovisivi legati a singole città come Napoli e Firenze. Portare a compimento un progetto come questo che contemplasse le maggiori esperienze del biennio 2014-15 è stata una bella sfida, sia per noi della produzione che per gli artisti. Abbiamo mantenuto l’indipendenza e la libertà creativa in ogni fase della lavorazione e fino alla distribuzione su piattaforma dedicata www.congliocchialmuro.com di modo che tutti possano visionare i cinque frammenti in cui è suddiviso il reportage su qualsiasi supporto. Mi piace considerare artisti tutti coloro che hanno offerto la propria professionalità e il loro tempo per realizzare “Con gli occhi al muro” poiché – non mi stancherò mai di ripeterlo – questo reportage è frutto di una collaborazione molto articolata: si tratta di un lavoro di gruppo fatto da musicisti, ingegneri del suono, webmaster, fotografi, videomakers e artisti stricto sensu.


Nel documentario vengono analizzati diversi festival e progetti come SanBA e M.U.R.O. Secondo te questo tipo di iniziative come si coniugano con una cultura artistica che ha origine in un gesto considerato illegale?

Questa è una vecchia storia… pensiamo alle avanguardie storiche ad esempio, alla sintassi della pittura surrealista e di come, nel tempo, l’immaginario surrealista sia stato acquisito dalla “tradizione plastica” e sia rientrato nelle leggi sociali della diffusione culturale. O ancora si pensi ai film di Warhol: quando hanno smesso di essere underground? Magari appena hanno cominciato a circolare nelle grandi sale opportunamente riadattati a 35 mm.? Esiste un passaggio tra Avanguardia e Avanguardia storica che sarebbe ingenuo trascurare. I sistemi culturali tendono ad assimilare la diversità, laddove assimilare vuol dire “rendere simile a sé”; è un processo storico questo, nulla di strano dunque se qualcosa che nasce illegale pian piano comincia ad essere considerato e vissuto diversamente. Conosco tanti writers che pittano su muri legali, sui container o su pareti di posti abbandonati senza troppi problemi, senza stare troppo a sofisticare sui concetti. Per quanto mi riguarda ognuno è libero di fare come crede, io continuo ad apprezzare la tecnica e lo stile indipendentemente dalla legalità o meno di un muro.


Ai meno esperti o appassionati nel settore, con che occhi consigli di guardare il vostro documentario?

Me la stai servendo sul famigerato piatto d’argento la battuta… consiglio di guardare il documentario «con gli occhi al muro», ossia visitando personalmente i posti, le città, le yard storiche e i quartieri che ospitano nuovi murales. Ad artisti e appassionati suggerirei di selezionare bene le iniziative e i festival a cui partecipare, la cultura del “festivalismo”, dopo la musica, sta virando verso la street art. Consiglio soprattutto di visitare i borghi dipinti, piccoli paesi dall’importante tradizione di arte murale. In Italia sono circa 200, disseminati per tutte le regioni. Oltre ai borghi menzionati nel documentario (Rimini, Mugnano e Sant’Angelo le Fratte in Basilicata) suggerisco una visita a Diamante in Calabria, Satriano di Lucania, Orgosolo e Dozza vicino Bologna.


Credi che nel futuro vi occuperete ancora del tema street art?

Probabilmente si, attualmente sono impegnato nella lavorazione del prossimo documentario che approfondirà i temi del turismo italiano in rapporto al patrimonio artistico e culturale. “Con gli occhi al muro” è un progetto concluso solo in parte, esiste già una versione sottotitolata (in inglese) che avrà una nuova distribuzione. In realtà dovremmo riprendere la lavorazione dell’appendice europea, poiché nel corso del 2015 abbiamo visitato varie città come Lisbona, Barcellona, Berlino e alcune località dell’est Europa. Lo staff di “Con gli occhi al muro” è un’entità mutevole, ci sono sempre nuovi ingressi (ad esempio per la supervisione ai sottotitoli) e nuovi collaboratori, anzi credo che grazie al prossimo progetto la crew si allargherà ulteriormente. Siamo comunque presenti on line, su youtube e Facebook, con tre trailer e due estratti. Questo documentario è stato concepito per uscire dai consueti circuiti di produzione/distribuzione e per rimanere autonomo. Chi sceglierà di guardare il lungometraggio in streaming su www.congliocchialmuro.com contribuirà a sostenere questo progetto con una donazione… è un modo utile per supportare le produzioni libere in questo Paese.


di Francesca Renda




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