Francesco Aprile è nato a Ragusa nel 1977. Vive a Milano. Ha pubblicato: “Un attimo di cielo”, Aletti, 2011; “Moto ondoso”, Galassia Arte, 2012; “Scrivo sui muri”, Galassia Arte, 2013; “Afrodite è morta”, Galassia Arte, 2014; “Non tutte le ciambelle vorrebbero quel buco” - aforismi, Rapsodia, 2015; “Poesie scelte”, Galassia Arte, 2016; “La caduta”, Galassia Arte, 2018; “Magnitudini apparenti “, Galassia Arte, 2020.Alcuni suoi componimenti sono stati inseriti all’interno di prestigiose antologie poetiche e all’interno del libro “Non farò rumore” della scrittrice Lara Cardella, Barbera, 2013, che le ha scelte come apertura di ogni capitolo del libro.
Nell’insieme della raccolta torna spesso l’idea della nascita (“A / nascere ogni giorno e solo / da me stesso”). Qual è il sentimento che ti accompagna ricordando la tua nascita? E la tua nascita alla poesia com’è avvenuta? Allegria. I miei genitori, dopo due femmine, desideravano il figlio maschio. Quando sono nato (all’epoca non c’era ancora l’ecografia), anche in ospedale medici e infermieri avevano scommesso sul sesso del nascituro di casa Aprile: chi diceva maschio, chi femmina. Alla fine, ad annunciare la nascita a mio padre e al resto dei parenti fu la suora, uscita dalla sala parto con una faccia da funerale: “Maschietto!” Aveva perso la scommessa e, credo, parecchi soldi. E poi mia madre mi diceva sempre: “Sei nato alle 11.30, l’ora della ricreazione a scuola!”. In effetti rido sempre, ogni volta che penso alla mia nascita, la mia famiglia è davvero comica. Quindi, senza dubbio, rispondo allegria. Non è un sentimento, ma uno stato d’animo. Che porta al più grande dei sentimenti, l’amore. La nascita mia nella poesia? Nel 2010, più che di nascita si tratta di una rinascita. In pratica, quando - complice un lungo periodo di fermo lavorativo per ragioni di salute - mi decisi a scrivere. A farlo materialmente, intendo, nero su carta, non solo annotando qua a là qualche frase.
Dedichi una poesia al santo di cui porti il nome, Francesco (“Ho moltiplicato i grazie e/ amputato i niente”). Hai una concezione religiosa dell’esistenza?
Sì, assolutamente. E mi dispiace molto per chi non crede. Penso che sia come non scartare un regalo, rifiutarlo a priori.
Come vivi il sentimento dell’amore, che descrivi bene in versi come ““lasciare fuori ogni / pensiero triste di te, / insieme all’ombrello”?
In ogni sua sfumatura, a seconda dei momenti. Adesso lo vivo in maniera diversa, rispetto ad alcuni anni fa. Invecchiando si diventa più saggi, più riflessivi, più responsabili. Ma non potrei mai vivere l’amore con distacco o eccessiva razionalità: progetterei soltanto edifici, anziché scrivere poesie, a quel punto.
In che modo la poesia Cartolina dal lago ti rappresenta? E quanto rappresenta il tuo modo di intendere i rapporti umani? “Sono un’anima, non una cosa”.
Mi rappresenta molto, perché l’avevo scritta pensando proprio a una mia relazione passata. Il mio modo di intendere i rapporti umani è semplice: ho imparato che ogni persona è un mondo, per quanto tu possa impegnarti, occorre molto tempo per conoscerla e mai davvero fino in fondo.
In Happy hour fai una critica spietata a questa società: “Va molto di moda essere soli”. Quali sono le cose di questa società che ti infastidiscono di più e perché?
La superficialità. Nell’approccio alla vita stessa. Tutto è passeggero, tutto è troppo influenzabile, tutto è finalizzato all’esteriorità e all’esaltazione del proprio ego. Insomma, menomale, ho qualcosa per cui valga la pena scrivere ancora e rompere le scatole. Pensa la tristezza di quelli che sono sempre ottimisti e accomodanti: te lo immagini un libro scritto da costoro? Io sì, in fondo alla gamba di un tavolo zoppicante.
di Ornella Spagnulo
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