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Elisa Anfuso

 

Pittrice

Elisa Anfuso, perché l'arte?

Non sono stata io a scegliere l’arte, davvero. È stata lei a scegliere me e a pretendere dedizione assoluta.

 

Data la complessità del tuo lavoro come lo definiresti?

Come un labirinto, in cui è bellissimo perdersi, anche se non si sa cosa c’è al centro e probabilmente non lo si scoprirà mai. È un lavoro complesso nella realizzazione, negli scatti, nei set ma anche e soprattutto nell’investimento psicologico, nel tentativo di proiettare al di fuori certe visioni che affiorano da memorie inconsce ed hanno urgenza di trovare un senso.

 

Parlaci del tuo concept artistico.

Dipingo pezzetti di una storia che racconta molte storie, bisogni e desideri che danzano improbabili valzer dentro le nostre vite, insomma l’eterna dialettica tra un’anima che cerca il suo volo e un corpo fatto di carne, anziché piume. Aspiriamo al sacro, di cui ignari ne portiamo traccia dentro, per difenderci dalle necessità del profano. Racconto di equilibri quasi perfetti seppur perfettamente precari, di paure che vogliono essere affrontate, di inquietudini e malinconie che puntellano le nostre esistenze smarrite, e lo faccio attraverso i simboli, che da sempre sono il linguaggio prediletto dell’anima.

 

Il tuo lavoro sembra un gioco di equilibrio tra due forze: destrezza manuale e mentale ... parlacene.

La destrezza manuale mi permette di lavorare sul piano del reale e questa realtà diventa un ponte tra due mondi, il mio ed il vostro. La tecnica fine a se stessa è puro esercizio di stile, la tecnica deve stare a servizio dell’anima, perché è all’anima che l’Arte deve ambire a fare il suo discorso.

 

Usi chiaramente dei modelli. Quali sono i tuoi criteri di scelta?

Impossibile fissarli in un modello ideale. A colpirmi sono i dettagli, sono certe trasparenze dello sguardo, sono espressioni che ai miei occhi si aprono come libri bisognosi di raccontare una storia. Sono sintonie dell’anima, perché la bellezza è trasparente.

 

Due artisti classici e due riferimenti,  quali è perché?

I pittori preraffaeliti, per l’ideale di bellezza femminile, sospesa malinconica e decadente, e per il linguaggio simbolico, capace di aprire innumerevoli porte.

E l’arte fiamminga, per la potenza iconografica, per l’attenzione al dettaglio, per il silenzio che sembra regnare attorno ad ogni soggetto.

 

Al di fuori del mondo dell'arte quali altre contaminazioni subisce la tua arte?

Leggo molto, per lo più psicologia e filosofia, sono un nutrimento prezioso. Il cinema francese, Tim Burton, i notturni di Chopin, le fotografie di Tim Walker, Praga, i ricami di mia madre.

 

Quale credi sia il ruolo dell'artista contemporaneo?

Camus diceva che se il mondo fosse chiaro, l’arte non avrebbe motivo d’esistere. Ecco, io credo che un artista riesca a dare un senso possibile alle cose del mondo, riesca a ricomporre i pezzi di questo gioco con un ordine nuovo e creare nuove possibili soluzioni. Ed è la stessa ardua missione da sempre.

 

Ti esprimi con la pittura; cosa pensi delle avanguardie artistiche contemporanee?

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un consapevole ritorno alla figurazione come se, dopo tanto scomporre, sottrarre e sintetizzare, ci sia nuovamente la necessità di un discorso più completo, di una pittura che dopo tanta ricerca e tanta trasversalità, torni sui suoi passi, rinnovata.

 

L'arte nel futuro, come sarà secondo te?

A sentir parlare molti critici e a vedere la direzione del mercato si potrebbero dire tante cose, in realtà l’arte per sua natura sfugge ad ogni prevedibilità. Oggi poi, le categorie si sono liquefatte e il concetto di arte abbraccia una moltitudine di espressioni sempre più eterogenee. Più che l’arte nel futuro mi preoccuperei del futuro dell’arte. Di certo però credo nella sua fertilità, nella sua inesauribile fecondità che da sempre la lega alle vicende umane e ne fa lo specchio dei suoi turbamenti, e questo mi rassicura abbastanza.

 

© Annarita Borrelli

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