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Salvatore Rizzuti

 

Scultore

Se non fossi stato scultore, cosa saresti stato?

Non saprei proprio, mi sento così connaturato con la scultura che non riesco a immaginarmi in altre vesti, che non siano, in ogni caso, pertinenti all’arte.

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Quanto è stato duro affermare la tua anima artistica?

Per nulla e moltissimo allo stesso tempo, a secondo di come si intende: non ho mai avuto alcuna difficoltà a fare “arte per l’arte”, cioè ad esprimere la mia interiorità attraverso le forme; ma per ciò che riguarda il successo e la notorietà, posso dichiarare con altrettanta certezza che la mia affermazione è stata molto ostacolata, per la semplice ragione che ho sempre rifuggito l’appartenenza alle caste di potere del sistema dell’arte, nel caso specifico dei critici o dei galleristi “di grido”, la cui tendenza, notoriamente, è spesso quella di fare da carta moschicida attorno a cui far ronzare gli artisti in cerca di notorietà, magari a buon mercato; quando, semmai, dovrebbe avvenire proprio il contrario. Si potrebbe obiettare che è stato sempre così, ma non è del tutto vero: nel Rinascimento i Michelangelo, i Raffaello attorniavano i Papi e i Principi, ma anche questi ultimi si contendevano gli artisti, e tendevano sempre al meglio che c’era sul “mercato”, che esprimeva la qualità, l’altissima qualità, seppure al servizio dei potenti. Oggi, invece, trionfano servilismo e compromissione; in un tempo in cui le regole non le detta l’arte, ma le prime donne che le ronzano intorno e del cui sangue si nutrono in modo spudorato e spesso incompetente. Da qui  confusione e ambiguità, con conseguente diseducazione della cosiddetta “gente comune” alla qualità, al gusto e alla bellezza.

 

Salvatore Rizzuti … più “braccio o mente” … ovvero … quanto sono importanti per te la manualità ed il pensiero artistico?

Ecco, questa è la fatidica domanda che deriva proprio da quella ambiguità cui ho appena accennato: ti ringrazio per avermela fatta, poiché mi dai l’opportunità di chiarire alcuni concetti basilari del fare arte e del fare arte oggi. Se a congiungere “braccio e mente” ci fosse stata la e piuttosto che la o, la domanda sarebbe stata perfetta e pertinente. Ma quella famigerata o tradisce proprio la confusione creata da quelle carte moschicide di cui sopra, da un cinquantennio a questa parte; da quando, cioè, si è voluta determinare questa assurda frattura e distinzione fra braccio e mente; una frattura voluta a bella posta proprio da tutti quegli “intellettuali”, critici e artisti, che hanno imposto la priorità della mente o del “concetto” sull’aspetto pratico e realizzativo dell’opera. Una esigenza, da parte di costoro, che giustifica, o nasconde, l’incapacità di dare forma e corpo ai propri pensieri. Questo grande equivoco, purtroppo, ha interessato l’intero mondo occidentale ed è stato assunto come regola ufficiale. Nulla di più disastroso per l’arte. I due “poli”, braccio e mente, sono, in arte, assolutamente inscindibili, e sarebbe ridondante doverne spiegare le ragioni. Questa è la risposta secca che sento di poter dare. Dalla forzatura di questa scissione non può che derivare il nulla: è come voler privare un corpo della propria ombra in un mondo di luce; infatti, ove si è tentata questa forzatura, non è nata che oscurità totale, se non addirittura oscurantismo.

 

Raccontaci il fascino della pietra …

Il fascino della pietra lo esprime la pietra stessa, sia al suo stato naturale che quando viene manipolata o usata come semplice muratura, più o meno lavorata o intagliata. Lo dico anche perché ho avuto la fortuna e l’opportunità di lavorare la pietra propriamente detta (non il marmo, col quale ho realizzato tante mie sculture giovanili) soprattutto come paramento architettonico, esattamente come si faceva per la costruzione delle grandi cattedrali gotiche. Ma oggi anche questa antica e nobile tecnica è stata soppiantata dalla caducità e dalla bruttezza del cemento.  La pietra e i marmi o i graniti in generale (ma anche il legno), sono i materiali per eccellenza che si prestano all’esercizio della scultura, cioè quell’atto del “levare” così bene espresso e teorizzato da Michelangelo. Potremmo dire che la pietra è la materia per eccellenza, dalla corposità solida e duratura, che più si presta alla sfida del tempo. Quindi, anche se solitamente intendiamo la scultura come forma tridimensionale nello spazio, essa può essere il risultato di due momenti tecnici ben distinti e opposti: la scultura propriamente detta, che non permette ripensamenti o reversibilità, e la scultura plasmata, modellata, che permette invece all’artista di espandere le forme nello spazio a proprio piacimento. Ho voluto fare questa distinzione per meglio spiegare le motivazioni della mia maggiore propensione alla modellazione; tecnica che permette di annullare il limite imposto dalla massa disponibile della materia rigida. Infatti, quando faccio uso di una materia “rigida” come il legno, lo faccio miscelando le tecniche dell’aggiungere e del levare, poiché, assemblando i legni man mano che la scultura si espande nello spazio, avviene quasi lo stesso processo del modellare. Al contrario, nella materia a blocco monolitico, l’unica azione possibile è quella del levare.

 

La tua ricerca stilistica orbita attorno alla figura umana … Raccontaci di questa realtà …

Da millenni, fin dalla preistoria, l’uomo ha “rappresentato” l’esistenza osservando se stesso e la natura. Si tratta di un bisogno ancestrale e tale rimarrà sempre, al di là delle legittime fughe in avanti, alla ricerca di altre dimensioni non percepibili o intuibili da parte dei più. Solitamente associamo il concetto di ragione all’uomo. Probabilmente in futuro, sia attraverso la ricerca spirituale che quella scientifica, si potranno scoprire altre “ragioni”, altre realtà ed altri mondi, che magari sottrarranno all’uomo questa prerogativa assoluta. Tutto ciò, se e quando avverrà, sarà semplicemente straordinario. Ma al momento credo che sia ancora valido il concetto eccellentemente codificato dall’Umanesimo e dal Rinascimento, che pone l’uomo al “centro dell’universo”. Un concetto che l’Illuminismo stesso ha confermato qualche secolo dopo. Pertanto, penso che la figurazione non debba essere intesa come mera cifra stilistica di determinati periodi e più o meno soggetta alle tendenze, bensì come espressione della “figura umana”, macchina straordinaria e complessa, che, in quanto tale, non può che attingere in se stessa il proprio mistero spirituale e materiale. Con questa premessa e alla luce di quella felice stagione del Rinascimento e della riscoperta del mito, che sono per me fonte continua di ispirazione, è facile comprendere la mia propensione alla figura umana.

 

Percorrendo le diverse epoche della storia dell’arte, quali sono gli scultori a cui ti sei maggiormente ispirato?

Tutti gli scultori preclassici e classici dell’antica Grecia, particolarmente Policleto, e, ovviamente, quelli dell’Umanesimo-Rinascimento: Ghiberti, Della Quercia, Donatello, Michelangelo. Tra gli scultori più vicini al nostro tempo: Rodin, Moore, Marini, Manzù, Minguzzi. Questi sono i nomi che mi vengono più spontanei e immediati, ma, come penso sia ovvio, l’intera storia dell’arte può essere ispiratrice, come ad esempio nel caso del grande Piero, Piero Della Francesca, a cui ho dedicato e intitolato un’importante opera in legno. Questi artisti non hanno tempo, sono sempre, come il mito, anch’esso senza tempo, che è dentro di noi, in una sorta di inconscio collettivo. L’eredità di questi artisti ci aiuta ad agire sul nostro inconscio, da cui prendono forma le nostre opere, mediante il connubio inscindibile fra pensiero e azione. E con ciò voglio ribadire l’assurdità del volere separare il braccio non soltanto dalla mente, ma da tutte quelle componenti che rendono l’uomo un essere pensante, spirituale e pratico allo stesso tempo, cioè Homo Faber.

 

Qual è il legame tra la tua terra d’origine ed il simbolismo legato alla mitologia classica ed al paganesimo che ti piace raccontare?

Tutti i luoghi della terra sono legati a simboli e miti. Il mito unisce, poiché è dappertutto, pur nei suoi aspetti più crudi; le religioni separano, lo dimostrano gli eventi storici di tutti i tempi e principalmente del tempo attuale. Ritengo che le religioni andrebbero aborrite tutte e condivido Marx che le definisce “oppio dei popoli”. Il mito invece non è frutto di speculazioni perverse atte all’accaparramento dell’obbedienza cieca e spesso autodistruttiva, come avviene per le religioni; il mito è frutto di quella infinità di esperienze umane, che si sono sedimentate e stratificate nel corso millenario della storia dell’uomo; sedimentazione che è e resta l’humus che alimenta la vita stessa dell’uomo sulla terra, fatta di drammi e aspirazioni da cui non può e non potrà mai prescindere, poiché, appunto, gli appartengono. Quando ero ragazzo e mi aggiravo per le montagne, osservavo in lontananza le antiche vestigia di Selinunte, su cui immaginavo aleggiare gli dei descritti nell’Odissea e svolgersi le gesta degli eroi greci. Credo fermamente che sia nata proprio così la mia passione per la classicità e per la mitologia. Una passione che mi ha accompagnato sempre, manifestandosi come elemento fondante delle tematiche esistenziali espresse nelle mie opere.

 

Raccontaci della convivenza tra le tue chiare influenze classiche e contemporanee?

Per quanto riguarda la “contemporaneità”, nego in assoluto di poterne subire influenza alcuna, poiché questo tipo di “contemporaneità” non mi appartiene affatto, anzi la rifiuto. Cercherò di essere più chiaro. Le “carte moschicide” di cui sopra, purtroppo, hanno decretato che per contemporaneo non si deve intendere ciò “che si verifica nello stesso tempo, …che si riferisce, appartiene, all’epoca attuale…” come cita testualmente il vocabolario Zingarelli. Questi signori, con l’avallo degli artisti stessi, hanno ristretto il senso della contemporaneità solo ad alcuni ambiti, rinnegandone altri e stabilendo che l’ispirazione, la conoscenza, le capacità professionali, non fanno testo. Al contrario, tutto ciò che è improntato all’improvvisazione, allo sterile concettualismo, al rifiuto a priori della “tradizione”, essi lo esaltano e lo impongono, facendo, faziosamente, terra bruciata di tutto il resto. Dunque, in sintesi, sento di essere un artista con fortissime e orgogliosissime radici nel passato, ma che si esprime nel tempo presente con il linguaggio e l’esistenzialismo di questo tempo. Pertanto, mi sento un artista contemporaneo a tutti gli effetti, nell’accezione corretta e letterale del termine.

 

Quale credi sia il ruolo dell’artista contemporaneo?

Quasi sempre nel passato l’arte è stata manifestazione del potere dominante, laico o religioso. Forse col Romanticismo della prima metà dell’Ottocento l’arte inizia, per cosi dire, a laicizzarsi, cioè a divenire espressione esistenziale pura dell’uomo-artista. Un passaggio epocale importantissimo che ha visto l’artista non più al servizio di qualcuno o di qualcosa, ma di se stesso, della propria interiorità. Poi, con l’avvento delle ideologie dell’inizio del secolo scorso, un fortissimo ritorno di fiamma ha tentato, riuscendoci in parte, di riportare l’artista all’ordine delle ideologie stesse. La maggior parte degli artisti sono riusciti però a scampare il pericolo, ed è nata così la concezione della libertà assoluta dell’arte e dell’artista. Paradossalmente, però, questa libertà ha causato una sorta di spaesamento, di ritorno al caos primordiale in cui si sono perduti i punti di riferimento. Un momento di crisi profonda in cui ancora ci si barcamena alla ricerca di un appiglio, di un senso, di uno scopo. Ecco, credo che siamo ancora pienamente in questa fase, in cui ciascun artista, come d'altronde il resto della società, cerca di dare un senso alla propria esistenza. I linguaggi sono diventati babelici, senza un codice di comprensione comune, per cui ogni artista vive nella propria bolla, lontano da una condivisione sociale. Ci si chiede persino se abbia senso porsi un obiettivo comune o se sia più giusto restare nella bolla. Intanto il cosiddetto pubblico, la gente, rimane a sua volta tagliato fuori e distante dal  mondo elitario dell’arte, soprattutto quella contemporanea, che utilizza appunto un linguaggio babelico. Diventa dunque difficile per chiunque - anche per me - individuare il ruolo dell’artista contemporaneo. Per quanto mi riguarda, ho notato che il mio “pubblico” spesso si emoziona di fronte alle mie opere, e questo mi orienta verso una parzialissima definizione del ruolo dell’artista, quello cioè di riuscire a “mettere in moto”, attivare, trasformare, entrare in sintonia con l’altro. Ma è la strada giusta? E’ sicuramente un tentativo, a cui soltanto, per il momento, riesco a dare un senso.

 

Quale consiglio daresti ad un giovane artista?

Di imparare meglio a conoscere e a distinguere; di sapere; di non rifiutare mai le proprie radici; di essere onesto e umile, soprattutto con se stesso; di assecondare la propria creatività e la propria ispirazione, ma senza disdegnare le regole della tradizione e del proprio tempo; di lavorare moltissimo per se stesso e potere meglio discernere la qualità delle proprie opere; di non accontentarsi del semplice “mestiere”, ma di sapere andare oltre, esprimendo ciò che si ha dentro; di evitare i condizionamenti e i servilismi; di non appartenere che a se stessi; di curare lo spirito che è nell’uomo e nelle cose, laicamente. Questo è il mio unico credo. Questo è quello che ho cercato di insegnare ai miei allievi di Scultura dell’Accademia di Belle Arti di Palermo in 35 anni di docenza, dal 1980 al 2015. Spero che alcuni di loro si salvino dalla barbarie.

 

 

© Annarita Borrelli

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