Francesca Nesteri - La rappresentazione tra ferite e sovrastrutture
La storia è anche storia della percezione. La percezione si costruisce con rappresentazioni, modelli e costruzione di immaginari. E’ necessario detenere il potere dei mezzi per poter veicolare i messaggi funzionali a una posizione di vantaggio. Ma modelli e rappresentazioni non hanno quasi mai alcun rapporto con la realtà. Spesso si rifanno a idee o ideologie assurte ad egemonia culturale.
Immaginate, dunque, uno spazio occupato contemporaneamente da una identità integrata, codificata e subordinata alla tradizione e, dall’altra, da una molteplicità di identità dirette a uno scollamento sociale, a una non adesione al sistema. Ecco: questo corto circuito è lo spazio entro il quale si muovono le opere di Francesca Nesteri. L’artista compie un’investigazione puntuale su un mondo da scomporre e ricostruire sulla base della personale esperienza; “aggrega diversamente i dati della convenzione, scompagina le affinità per differenze capaci di destare domande e quesiti” (Achille Bonito Oliva, Antipatia. L’arte contemporanea). La riscrittura delle diverse espressioni avviene attraverso un aggiornamento sistematico degli universi simbolici: la tradizione diventa viva nella misura in cui la penetriamo e la sottraiamo alla percezione di simulacro, di feticcio.
In particolare, le opere in tecnica mista dell’artista si strutturano come la realizzazione di un progetto creativo che, qui, rimescola in maniera definitiva le carte. L’accesso ai mezzi di rappresentazione si traduce in un progetto di libertà, in una volontà di scavare un’essenza autentica, produttrice di una concezione attiva del sé. Il corpo femminile, allora, si fa linguaggio di una nuova narrazione e, liberato dall’obbligo di sedurre, capovolge la violenza di un immaginario di sottomissione. Francesca Nesteri, esercitando il pieno controllo del mezzo, può elaborare una rappresentazione in cui non ci sono più oggetti da osservare, ma identità complesse. Le opere in tecnica mista descrivono una frattura che si fa ferita, lacerazione. E’ il cristianesimo ad aver allestito l’exemplum di un corpo mutilato – quello di Cristo – prodotto da una madre vergine cui si accompagna un’iconografia della sofferenza incarnata dallo stesso Gesù nonché da una serie di uomini e donne vittime di martirio. Lo vediamo in Oculi (anno 2020) e in De profundis (anno 2019). Entrambe le opere presentano la commistione fra rielaborazione fotografica, pittura a smalto, foglia oro e combustione. In Oculi, la donna è in posizione frontale visibile fin sopra alle ginocchia, indossa una tunica bianca mentre un telo bianco le copre i capelli fino alle spalle; le braccia sono aperte verso l’esterno e il gomito forma un angolo acuto; su ciascun palmo della mano, staccato, un gruppo di foglie con all’interno un bulbo oculare; gli occhi della donna, invece, non ci sono, coperti dalla combustione del pvc sovrapposto alla foglia oro; in alto si legge “oculi occulte amorem incipiunt”( gli occhi danno inizio di nascosto all’amore), parte di una frase del drammaturgo romano Publio Siro. La foto evoca le rappresentazioni di santa Lucia in cui la martire cristiana ha tra le mani un piatto su cui poggiano gli occhi che ella stessa si è cavati con un coltello come tramandato dalle agiografie. Il cuore perverso del cristianesimo mette in moto la pulsione alla morte che, nella donna, esige la verginità. “La chiesa ha sempre visto nel corpo, nella carne, nei desideri, nelle passioni, nelle pulsioni, in altre parole nella vita, i suoi grandi nemici. La nostra civiltà si è costruita sul rimosso paolino della carne (Michel Onfray, Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana). L’altra opera, De profundis, è sempre un ritratto femminile frontale in cui la donna indossa la consueta tunica bianca che le fascia anche il capo; il petto è squarciato da una combustione longitudinale sotto la quale appare la foglia oro. Ciò che si impone all’attenzione è la ferita come cerniera tra una destinazione prospettata e la scelta di un destino. Qui sta tutto il senso sovversivo di Oculi e De profundis, rivisitazioni incendiarie delle icone bizantine ma anche interpretazioni del caravaggismo. L’oro istituisce un parallelo con l’arte delle icone, “quelle vecchie immagini della Madonna, dure, rigide e spesso terrificanti [che] inducono molti cattolici alla venerazione molto più che le dolci Madonne di Raffaello” (Rudolf Otto, Il Sacro). E l’uso dell’oro istituisce un parallelo anche con il Klimt del periodo aureo. Nelle opere di quel periodo, l’artista austriaco aveva conferito ai suoi lavori una caratteristica bidimensionalità, componente che ritroviamo anche nei lavori di Francesca Nesteri. Se in Klimt la doratura dello sfondo fa emergere l’erotismo delle figure femminili, nella Nesteri la foglia oro è la luce divina che problematizza la scena. La vita è possibile al prezzo di ferite che sanguinano. La combustione è la rivendicazione di una spiritualità, la rivendicazione di quelle identità negate che si contrappongono ai modelli codificati dalla tradizione. Ella si fa artefice del significante e del significato, trascendendo il simbolismo asservito a un immaginario-prigione e proiettandosi in uno spazio di autonomia figurativa.
Le opere in tecnica mista trasfigurano i soggetti e i temi cui si rifanno e trovano una loro nuova sacralità, una santità nell’ambizione a scavalcare i modelli di ispirazione. Anche i Tarocchi fanno parte di questo tipo di opere e rappresentano l'incipit dello stile di Francesca Nesteri. L’artista qui fa i conti con un universo femminile che si concretizza in tre archetipi fondamentali: la madonna, la seduttrice e la musa. Tre archetipi sviluppati dalla cultura visiva nel corso della storia della nostra civiltà. Archetipi che, oltre a codificare un ordine estetico, si fanno portatori di modelli di comportamento. L’universo espressivo dell’artista scompagina gli archetipi, affermando una spiritualità scollata da un’oppressiva memoria artistico-culturale.
I Tarocchi di Francesca Nesteri sono 22 fotografie con cui l’artista interpreta il gruppo di 21 Trionfi cui si aggiunge Il matto (Arcani Maggiori): si tratta del tradizionale gruppo che fa parte del mazzo di carte dei Tarocchi. Le sue opere si contraddistinguono, per lo sfondo nero delle immagini. Le figure appaiono come provenienti dal buio a cui ritornano. L’oro, invece, nei Tarocchi, evoca i caratteri delle icone bizantine anche se l’operazione è volta a sommuovere un ordine convenzionale attraverso la costruzione di una nuova sacralità in cui la figura umana diviene centrale. Il soggetto assume pose che si fanno scultura occupando lo spazio sulla base di un criterio scenografico e, quindi, in chiave contemporanea, in antitesi con il carattere del greco antico della foglia oro. Questi Tarocchi creano un distanziamento temporale rispetto all’ispirazione, tanto che lo scarto fra la fonte e la rielaborazione è l’evidenza spettacolare dello scollamento rispetto alla memoria. Un noto precedente di rilettura dei Tarocchi sono le sculture di Niki De Saint Phalle, ma lì siamo al cospetto di un esercizio di stile declinato in una chiave esoterico-psichedelica. I Tarocchi di Nesteri, invece, sono un capovolgimento dell’ordine attraverso un nuovo ordine estetico ed etico. Nella cartomanzia, gli Arcani Maggiori sono le carte con più alto significato esoterico, un significato il cui accesso è esclusivo degli iniziati. L'artista “entra” nel gioco, nel sistema, con i suoi mezzi per destabilizzarli dall’interno, per sbiadire la risonanza di un immaginario preconfezionato. Ciascuno degli Arcani ha per protagonista una figura femminile, un essere che ha il pieno controllo di sé, che gioca con l’essenza divina perché pervenuta al dominio dell’immagine; essa è un essere vivo e reale e non più immaginato. La scena, a livello cromatico, evoca il nero caravaggesco ma in chiave gentileschiana, nel senso che, dalle “carte”, fuoriesce un universo che comincia varcata la soglia del nido familiare, varcato il confine di una certa cultura di sottomissione. Il soggetto, il cui sguardo non è mai visibile, domina la scena indossando un telo bianco che copre in maniera differente il corpo. Ciascuna carta si attiene ai simbolismi tradizionali (il potere terreno, il potere religioso, la fede, l’armonia esistenziale, il fato, eccetera) pur innovandone la rappresentazione. I Tarocchi si fanno strumento di analisi e di rappresentazione di un universo trascrivibile solo dall’artista. “L’opera diventa quel luogo heideggeriano […] il campo di riserva di un linguaggio capace di creare una dimora effettiva in cui lo spettatore possa fluttuare e respirare” (Achille Bonito Oliva, op. cit.). Questi tarocchi contemporanei, creando uno standard alto di espressività e originalità, diventano un classico.
La ricerca sulle sovrastrutture, quali accumuli che sovrastano e schiacciano l'Io, parte da una video art per poi dar luogo a delle installazioni come Sovrastrutture #2, presente nella collezione del Maam – Museo dell'Altro e dell'Altrove Metropoliz di Roma. L'opera è un cubo nero in legno (30x30x30 cm) con all’interno parte degli oggetti in pvc miniaturizzati della video art. Anche in questa installazione si vede la capacità dell'artista di destrutturare il sacro per costruirne uno inedito e soggettivo legato al primo. “La coscienza di un mondo reale e dotato di significato è legata intimamente alla scoperta del sacro. Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato.” (Mircea Eliade, La Nostalgie des Origines). La potenza di quest’opera ricorda alcune opere dell’artista e architetto siriano-americano Mohamad Hafez, in particolare Refuge Baggage. Pur partendo da esperienze diverse, l’artista romana e l’artista siriano approdano a opere affini: un microcosmo inscritto nel macrocosmo; la brutale consapevolezza di essere vittime di una realtà, di un’esperienza i cui artefici sono all’esterno dell’opera ma si incontrano con i frammenti di vita immobili nella loro presenza perturbante perché ormai parte dell’esperienza psichica. Lo “spettacolo” delle sovrastrutture vorrebbe esorcizzarle, eppure esse persistono imponendosi allo sguardo della comunità. E il senso è proprio quello di coinvolgere la società in una soggettività che è il prodotto di una struttura affettiva ma autoritaria. La “mistica della femminilità” probabilmente è solo uno dei segmenti del disagio cui va aggiunta una complessiva condizione di dolore esistenziale; “la forza dell’opera – per usare le parole di Bonito Oliva (op. cit) - consiste nell’inscenare da una parte la propria differenza rispetto al mondo, e dall’altra indebolire il corpo sociale tramite questo spettacolo. Uno spettacolo dunque di forza e debolezza insieme”. Sovrastrutture #2 è una critica radicale alla cultura che sottopone ciascuno a un progetto di formazione, a un format irrispettoso della soggettività, all’imposizione di una cultura come negazione dell’identità, all’irradiarsi di un pericoloso conformismo culturale da cui sono assenti il corpo, il cuore, la sessualità, la solitudine. Gli oggetti della quotidianità diventano l’inquietudine dell’artista che, raccontando un mondo, esprime il bisogno di vivere il mondo stesso come scelta autonoma. Sovrastrutture #2, più che un’installazione-invettiva è un’installazione-sconsacrazione dello spazio domestico.
Claudia Placanica
Docente e ricercatrice di Socio-culture contemporanee
Fotografia di copertina di Ettore Maria Garozzo