Foto di Max Martini
Giuseppe Cataldi, il poeta giullare che il suo sguardo si sposta dal cielo metafisico all'empirica quotidianità agendo come testimone appassionato … alla costante scoperta del ciclo delle stagioni non naturali soltanto, ma umane, quello delle albe, dei meriggi e dei tramonti … delle esistenze singole e collettive, i luoghi privilegiati del suo animo poetico. È un suono che si sente prima in lontananza, per poi arrivare nel bel mezzo del proprio io, come un refrain che riporta al tuo déjà vu. Un suono dove la solitudine trova riparo, lì dove s'accompagna con personaggi tanto visibili che sembrano toccarti nel riflusso continuo del tempo, che in loro si è fermato. "I miei hanno portato dal sud qualche canto di cicala - un connubio impossibile ed un miracolo che s'avvera”. S'avvera aggiungo nel tempo che lì è rimasto come ipotesi di poesia. "L'acero forse perché spossato resiste ridendo - di me che non riesco a farlo fino in fondo". Poeta giullare che di lui stesso ride e con noi sorride e come tutti i giullari nel suo canto trasforma la sua malinconia nell'universalità del nostro essere "tutto".
di Anna Palasciano
La scuola genovese
Sono figlio di quella scuola in cui la musica fornisce una scusa alle parole per sopravvivere alla vita, nasce sulle montagne liguri non al mare e se tocca l'acqua comunque sogna rocce e prati di lavanda
e terrazze coltivate e borragini lungo le strade poco frequentate una scuola senza padrone senza possesso e passo lento dure salite e valichi per schiudersi come un fiore ed affondarsi nell’anima trascendendo la luce in ognidove
La solitudine e la natura sono compagne come compagne sono l’ombra delle case e le corse dei bimbi l’ardesia ricopre i tetti e pavimenta strade, tutto ha una sua ragione malinconica
la polvere cerca da sempre una stagione che non ha lo hanno i racconti di guerra all’incrocio delle valli ed i portici poco eleganti ma solidi e trasandati i giochi di birilli di legno delle donne in piazza
ed il pallone elastico per i forzuti ragazzotti all’ombra di un castello che non c’è più.
Quella musica non ha bisogno di canzoni ma sopporta e suona di piacere in comunione, i miei hanno portato dal sud qualche canto di cicala un connubio impossibile ed un miracolo che s’ avvera.
Parlare con le piante anzi peggio, sentirle parlare!
Ho un piccolo d’acero, misterioso
fece le foglie di rosso ma poco dopo
cambiò in giallo ma non caddero stanche
vibro di un lobo auricolare attento e sento:
“si può peggiorare così senza cadere?”
ho visto altre foglie colorarsi di rosso
ma mai divenir gialle e macerate in pianta
uve d’ un bel passito è un pezzo da novanta!
Sento dire scocciato
"è come viver di rendita dannazione!”
Nella mia ansia di dargli valore
lo circondai di molta terra
in cui ora sguazza non avendo presa
“mi sento spostato sussurra, senza volerlo
quasi per distrazione …….di posizione”
Il salice di prima era tutta un’altra cosa
intanto s’era aggrappato
a tutto quello che gli capitava a tiro
aveva si un aspetto poco brillante
ma viveva vicino all’acqua
ed al gracidio delle rane e dei grilli
insomma era in presa diretta col tempo
L’acero resiste però alla noia
ed alla mia stanchezza si pavoneggia
ha una vita instabile e sembra contento
sento che ride della sua sorte
e dice che nulla gli frega della morte
Intanto l’ho dovuto ancora raddrizzare
gli ho levato io le foglie ad una ad una
ha resistito il dannato e son stato attento
m’ha sussurrato ad un tratto
“guarda che mi ti porti appresso screanzato”
Il mastello di legno dove dimora
è un’altra sfida ancora, marciranno prima le radici
od il legno che le circonda?
Faccio finta di niente e lo tengo a secco
che sia la pioggia sul balcone
ed il freddo dell’inverno ad averne ragione
mi limito solo ad irrorarlo di pensieri
salmastri ed intano il pino di sotto
al vento ha perso un ramo dallo spavento
ma io con lui non ho niente da spartire
il salice è morto per le difficoltà di sempre
l’acero forse perché spogliato resiste ridendo
di me che non riesco a farlo fino in fondo.